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L’ABBRACCIO MAI DATO: QUANDO IL RINFORZO DELLA PARTE SANA RIPARA LA RELAZIONE DI ATTACCAMENTO TRAUMATIZZATA
- 24/06/2022
- Posted by: delmondo imperatore
- Category: Senza categoria
A cura di: Manuela Giglio
Those who have suffered understand suffering and thereby extend their hand.
Patty Smith, Rock’n’roll Niger
A causa di un’infanzia costellata da traumi, caratterizzata da un ambiente familiare promiscuo e violento, ad un certo punto della sua vita S. si è trovata molto lontana dal suo Io più autentico, troppo lontana, e si è presentata in studio all’età di trent’anni in preda all’ansia. Gli attacchi di panico, di cui soffriva già da un anno, erano divenuti sempre più invalidanti, portandola a frequenti accessi in pronto soccorso e a seguire una terapia farmacologica che l’aiutava a contenere i sintomi più severi. Questi coinvolgevano prevalentemente il sistema cognitivo percettivo, in associazione a forte tachicardia, ipersudorazione e sensazione di morte imminente.
S., attraverso la terapia e attraverso un legame d’attaccamento sano intercorso tra lei e la terapeuta, è riuscita a connettersi nuovamente con il suo Io e a far ritorno alla bambina che era: è stata in grado di vederla, di ascoltarla e di darle conforto. Tale processo terapeutico verte su di un fattore imprescindibile: l’esperienza emotiva correttiva. Ma prima di mettere in atto qualunque tipo di intervento terapeutico è necessario effettuare un inquadramento diagnostico della persona che si ha di fronte.
- Psicodiagnosi
Alla luce delle modalità di scarica dell’ansia (H. Davanloo, 1996[1], 2001[2]), delle difese (H. Davanloo, 1990[3]), della capacità adattiva dell’Io (J. Ten Have-de Labije 2018[4]) e della patologia Super-egoica (J. Ten Have-de Labije 2018[5]) propri di S., tutti elementi necessari per definire la psicodiagnosi del paziente, ho collocato il suo profilo clinico di tra i “Pazienti da moderatamente resistenti ad altamente resistenti” e i “Pazienti altamente resistenti” al trattamento
- L’esperienza emotiva correttiva
I primi a parlare di esperienza emozionale correttiva sono stati due psicoanalisti, Franz Alexander e Thomas French che, discostandosi dalla posizione freudiana, nel loro libro del 1946[6] scrivevano: “…una nuova esperienza correttiva può essere fornita dalla relazione di transfert, da nuove esperienze di vita, o da entrambe. Tali intense e rivelatorie esperienze emozionali ci danno la chiave per la comprensione di quei risultati terapeutici enigmatici ottenuti in un tempo considerevolmente più breve di quanto sia usuale in psicoanalisi”.
L’individuo che ha subito un trauma nel legame di attaccamento e che ha conseguentemente sviluppato una serie di difficoltà relazionali può recuperare un buon funzionamento sul piano relazionale attraverso l’esperienza emotiva correttiva. Come affermano Alexander e French (1993)[7], essa consiste nel riesporre il paziente a situazioni emotive che non ha avuto modo di affrontare in passato, questa volta sotto circostanze più favorevoli. Questo tipo di esperienza può verificarsi, sia nella relazione transferale durante la terapia, sia nella vita privata del paziente, attraverso un legame di particolare importanza. In studio, all’interno della relazione con il terapeuta, è possibile superare un conflitto irrisolto perché
- Il conflitto transferale è meno intenso di quello originario
- Il terapeuta assume un atteggiamento diverso da quello che il caretaker aveva assunto nei confronti del bambino nella situazione conflittuale originaria.
A tal proposito, l’atteggiamento neutrale, non giudicante e accogliente del terapeuta permette al paziente di sperimentare reazioni emotive alternative al vecchio problema: le difese messe in atto dal paziente in risposta al vecchio conflitto erano un tentativo adattivo da parte del bambino nei confronti del comportamento del genitore. Nel momento in cui, però, la risposta genitoriale cambia attraverso lo strumento della persona del terapeuta, allora la vecchia reazione del paziente diventa priva di senso. Dato che la risposta del terapeuta è differente dalla risposta del caretaker del paziente, questi si trova nella condizione di poter far fronte ripetute volte, e sotto circostanze più favorevoli, a quelle situazioni conflittuali che erano precedentemente intollerabili per lui/lei; ora il paziente scopre modalità di gestione diverse rispetto a quelle precedenti.
Questo passaggio così cruciale all’interno di una psicoterapia, però, può essere ottenuto esclusivamente attraverso esperienze reali all’interno della relazione tra paziente e terapeuta: l’insight intellettuale non è sufficiente. A tal proposito, qualunque intervento del terapeuta deve essere autentico, vero e personale, altrimenti questo rischia di cadere nel vuoto, oppure che il paziente recepisca il contenuto esclusivamente su un piano intellettivo e questo non è sufficiente per portare un cambiamento reale nella vita del paziente.
Oltre all’autenticità del terapeuta, un altro fattore di cruciale importanza affinché l’esperienza emotiva correttiva si verifichi, consiste nel fatto che il paziente si senta sufficientemente al sicuro all’interno della relazione terapeutica, in modo da poterne fare pienamente parte (Shilkret, 2020)[8]. Al fine di creare questa sensazione di sicurezza è di fondamentale importanza l’atteggiamento del terapeuta, che non si mostra preoccupato, spaventato o arrabbiato in risposta ai contenuti e alle reazioni emotive portate dal paziente in seduta.
Nel paragrafo successivo sarà riportata una vignetta, rinominata l’abbraccio mai dato, che evidenzia alcuni passaggi tipici di un’esperienza emotiva correttiva, protagonista della terapia di S.
- Trascrizione Verbatim de L’abbraccio mai dato
La vignetta seguente è tratta dalla quinta seduta, che si colloca in una fase iniziale della terapia in cui l’alleanza terapeutica non è ancora ben salda e la paziente mostra ambivalenza e sentimenti conflittuali nei confronti della terapeuta. Questa seduta, per l’appunto, inizia con S. che comunica alla terapeuta di non stare molto bene e di non sentirsi soddisfatta di come era andata la seduta precedente, che ha percepito “superficiale” e non sente di aver fatto passi in avanti. La paziente, dunque, assume sin dall’inizio un assetto fortemente difensivo, che la terapeuta accoglie, confronta, identifica e chiarifica in modo sistematico, per poi giungere al momento di grande apertura che è riportato nella vignetta sottostante.
Di seguito è riportata la trascrizione Verbatim:
P: mi vedo a 18 (anni)
La paziente recupera un’immagine di sé di quando aveva 18 anni, al culmine dell’aggressività e di comportamenti autosabotanti e autolesivi (abuso di alcool, di fumo, promiscuità sessuale), che hanno
segnato la sua adolescenza. Ora ci troviamo a lavorare sul vertice del passato, nel triangolo delle persone.
T: cosa prova per quella ragazza di 18 anni, che deve tenersi questo peso dentro? Che deve tacere a suo padre…
Maieutica dell’emozione: “cosa provi per quella ragazza?”. Come afferma lo psichiatra Osimo (2001)[9], uno dei principali punti di riferimento dell’ISTDP nel panorama italiano e, più in particolare, della Psicoterapia Breve Dinamico-Esperienziale (PBD-E), la maieutica è uno dei passaggi fondamentali in un percorso terapeutico, e consiste nel dare forma, dare vita e dare parole a delle emozioni fino a quel momento inespresse. “L’immagine del parto evoca in noi la qualità particolare di un evento che per sua natura comporta la collaborazione tra due persone, ponendo enfasi sulla facilitazione da parte dell’una dell’emissione di qualcosa di vitale da parte dell’altra” in questo passaggio, a mio avviso, Osimo descrive molto bene la natura del rapporto terapeutico: il terapeuta assiste il paziente nel dare alla luce contenuti emotivi inconsci o preconsci, che fino a quel momento sono stati repressi, negati o neglettati e che possono finalmente prendere vita. Questo delicato passaggio non potrebbe avere luogo senza una robusta alleanza terapeutica (UTA: Unconscious Therapeutic Alliance, Abbass, 2015)[10] (fig. 2), che consente una vicinanza intima, rispettosa e discreta tra paziente e terapeuta, proprio come la vicinanza che intercorre tra ostetrica e partoriente.
P: pena Con questa risposta la paziente ripiega sul Sé al peggio (Fosha, 2016)[11]: in questo passaggio, il primo movimento della paziente in risposta all’intervento della terapeuta, che mira a contattare le esperienze affettive nucleari, è quello di spostarsi sul triangolo delle risposte difensive.
Più precisamente, la paziente si sposta sul triangolo del Sé compromesso- Altro distorto- Emozioni bloccate, dipingendo il suo Sé al peggio, cioè inadeguato, spregevole, non degno di compassione e comprensione. In questo schema, l’Altro è percepito in maniera distorta e bidimensionale e l’interazione tra Sé-Altro è carica di frustrazione e insoddisfazione. Alla luce di ciò, questo passaggio rischiava di essere molto insidioso e portare gli interventi della terapeuta a essere fallimentari. Per questo motivo, come si può evincere dal passaggio successivo, la terapeuta si discosta dallo schema difensivo della paziente, scegliendo di non seguirla sul triangolo del Sé compromesso- Altro distorto- Emozioni bloccate.
T: se prova a lasciare un po’ più di spazio? La vede quella ragazzina?
La terapeuta decide di non dare spazio alla difesa della paziente e torna a fare pressione sul prendersi cura di Sé (pressure to positive self-regard, Abbass, 2015)[12]. Questo tipo di intervento, in pazienti con importanti aspetti auto-sabotanti come S., potrebbe far emergere, oltre che gratitudine ed emozioni positive nei confronti del terapeuta, anche irritazione e atteggiamenti sfidanti, mobilitati dalla parte auto-punitiva che rifiuta un approccio amorevole ed empatico nei confronti del Sé. Grazie ad una buona alleanza terapeutica, instaurata attraverso un meticoloso lavoro sulla regolazione dell’ansia e sulla validazione e sfida delle difese, la paziente coglie l’intervento della terapeuta e parla di sé a 18 anni in modo più comprensivo e amorevole.
P: io non mi piacevo a 18 anni. cioè se mi ripenso a com’ero a 18 anni…
La paziente inizia a sintonizzarsi su com’era durante l’adolescenza, quali comportamenti metteva in atto.
T: cos’è che vede se si ripensa a 18 anni?
La terapeuta facilita la sintonizzazione emotiva tra la paziente e la ragazzina che era, attraverso l’utilizzo dell’immagine mentale: “cosa vede se si ripensa a 18 anni?”.
P: ero aggressiva, ero ribelle, bevevo tanto…
La paziente si vede a 18 anni, elencando tutte le condotte auto-sabotanti e poco amorevoli nei propri confronti. Inizia a mobilitarsi una certa quota di dispiacere per Sé, per ciò che si è auto-inflitta.
T: e quindi cosa prova per quella ragazza di 18 anni adesso?
Ora che la paziente ha abbassato un poco le difese, rimanendo sull’immagine mentale che la terapeuta le ha suggerito e inizia a prendere contatto con il contenuto emotivo che questa immagine mentale porta con sé, la terapeuta esercita un’ulteriore pressione sulle emozioni, spostandosi sul vertice X del triangolo del conflitto (Malan, 1979).
P: mi sentivo forte ma non so cosa provo.
La paziente risponde con difese tattiche, di vaghezza e passività “non so cosa provo”.
T: perché secondo lei era aggressiva, beveva?
La terapeuta sfida la difesa, invitando la paziente a essere più precisa e a non difendersi dal contenuto emotivo emergente.
P: perché volevo sentirmi forte.
La paziente accoglie l’intervento della terapeuta, abbassando nuovamente le difese e sintonizzandosi con la ragazza che era a 18 anni. Questo passaggio è fondamentale, poiché sancisce un’ulteriore conferma dell’alleanza terapeutica: la paziente si affida alla terapeuta, lasciando emergere le emozioni associate all’immagine mentale evocata e lasciandosi pervadere da queste, un poco alla volta.
T: riesce a guardarmi S.?
La terapeuta sfida la difesa di deviazione dello sguardo: difesa tattica non verbale (Davanloo, 1997)[13] o difesa Front door (Ten Have-de Labije, 2018)[14], e la paziente ristabilisce il contatto visivo con la terapeuta. Questa annuisce con uno sguardo carico di calore, comprensione e gratitudine nei confronti della paziente, che ha deciso di abbandonare la difesa e di lasciare avvicinare la terapeuta. In questo passaggio siamo nel pieno dell’esperienza emotiva correttiva: tra la terapeuta e la paziente si stabilisce un contatto vero, autentico e intenso, nel quale S. permette alla terapeuta di partecipare al momento di forte carica emotiva che sta per sopraggiungere. In questo modo la terapeuta, come un’ostetrica che si appresta ad assistere la partoriente, può assistere al momento di maieutica emotiva della paziente, con tutti gli strumenti fondamentali per sostenerla in questo passaggio così intenso, proprio come un’ostetrica sapiente metterebbe a disposizione della paziente tutti i suoi strumenti e il suo bagaglio professionale. In questo caso, gli strumenti della terapeuta sono il supporto emotivo e psicologico, la vicinanza, il calore e il contenimento. Tutti questi elementi così importanti erano, infatti, mancati a S. nel suo processo di crescita, le erano stati negati dalle sue figure primarie di attaccamento e, dunque, S. aveva sviluppato delle difese ormai ben radicate per ovviare a tale mancanza materna. Con la terapeuta ha l’opportunità, ora, di rivivere un’esperienza emotiva intensa, potendo giovare del sostegno adeguato e della giusta sintonizzazione emotiva.
T: perché voleva sentirsi forte? Perché aveva bisogno di sentirsi forte?
Una volta ristabilito il contatto visivo ed emotivo con la paziente, la terapeuta applica pressione, sfidando la difesa antica di S. e invitando la paziente a vedere e accogliere il reale motivo che stava alla base di quella difesa (comportamenti auto-sabotanti per sentirsi forte): “perché aveva bisogno di sentirsi forte?”. In questo modo la terapeuta riconosce che i comportamenti poco amorevoli nei propri confronti erano messi in atto dalla paziente perché a lei necessari e non perché la paziente fosse una brutta persona; in questo modo anche la paziente si sente legittimata ad andare oltre la propria difesa e a vedersi, finalmente, per quello che era.
P: perché ero debolissima.
La paziente ripiega su una delle sue difese cellar door (Ten Have-de Labije, 2018)[15]: la svalutazione. Il primo movimento istintivo in risposta al superamento del muro della difesa (deviazione dello sguardo, fuga dalla vicinanza emotiva) è quello di rifugiarsi dietro ad una difesa ancora più antica e ben nota, profondamente radicata nella paziente: una difesa cellar door.
T: a me vien da dire che non era lei debolissima…
Anche in questo passaggio la terapeuta sceglie di non alimentare la difesa ormai molto vacillante e incerta eretta dalla paziente, ma sceglie di attuare un intervento di validazione della parte più fragile della paziente. Attraverso questo intervento di sostegno, coadiuvato da uno sguardo attento e compassionevole, finalmente il focus dell’interazione è spostato dalla parte manchevole, indegna e “cattiva” di S. (Sé al peggio), alla parte più fragile, ma sana. In questo modo l’esperienza emotiva correttiva si concretizza attraverso la relazione transferale.
P: no?
La parte “bambina”, in via di ristrutturazione della paziente, chiede conferma alla terapeuta di non essere poi così debole. Importante momento in cui la paziente fa appello all’alleanza terapeutica.
T: ma doveva proteggersi…e ognuno trova il suo modo per proteggersi e per difendersi (in questo passaggio la paziente indossa nuovamente gli occhiali, che aveva tolto per le lacrime, quasi a voler ascoltare meglio la terapeuta). E il modo di una ragazza di 18 anni può essere aggressivo, può essere poco amorevole nei propri confronti, esagerando con l’alcool, con il fumo…forse è stato proprio il suo modo per difendersi.
In questo passaggio la terapeuta effettua un intervento di chiarificazione empatica delle difese (Fosha, 2016)[16]: le difese auto-sabotanti messe in atto dalla paziente nel periodo della sua adolescenza vengono identificate e validate, quindi legittimate, proprio perché rappresentano il meglio che S. è riuscita a fare, con gli strumenti che possedeva all’epoca, per far fronte alle situazioni estremamente difficili e spaventose davanti a cui la vita l’aveva posta. La paziente, infatti, non solo è stata privata dell’adeguata elaborazione delle emozioni più intense, ma la persona che avrebbe dovuto proteggerla da qualsiasi pericolo, ovvero sua madre, si è trasformata ella stessa nella principale fonte di pericolo: una strega cattiva e imprevedibile. Questo rappresenta un gravissimo attacco al Sé e alla sicurezza del legame di attaccamento, il quale genera altre emozioni dannose e intense. Nel momento in cui il caregiver non è responsivo e disponibile alle necessità emotive e psicologiche del bambino, questo si ritrova da solo a dover gestire la propria esperienza emotiva dolorosa e spaventosa, vivendola in modo travolgente e angosciante: “La solitudine, la solitudine psicologica, è la madre dell’angoscia” (Wolf, 1980)[17]. In uno scenario di questo tipo, quindi, il bambino deve decidere se preservare l’integrità dei legami di attaccamento o quella della propria esperienza affettiva. Nella maggior parte dei casi è proprio l’esperienza affettiva a venir sacrificata, compromettendo dunque l’accesso fluido alle emozioni, questo per difendere il più possibile l’immagine interiore del legame di attaccamento con la figura primaria, che rimane unico vero garante della sopravvivenza del bambino.
Per citare Fosha (2016, pag. 267)[18], attraverso un intervento di elaborazione empatica da parte del terapeuta, il paziente ha la possibilità di ascoltare gli eventi della sua vita narrati da qualcun altro. Questo gli consente di percepire che lui/lei esiste nella mente e nel cuore del terapeuta: il paziente ha l’occasione di vedersi attraverso gli occhi del terapeuta, accrescendo, così, la propria auto-empatia e la conoscenza di Sé. Attraverso questo intervento di validazione delle difese ed elaborazione empatica, S. ha sentito la terapeuta che narrava il motivo per cui si era inflitta le sue difese auto-sabotanti per tanto tempo e proprio grazie a questo intervento la paziente ha potuto vedere sé stessa attraverso gli occhi della terapeuta: per la prima volta si stava guardando con occhi comprensivi, protettivi e amorevoli. Quando nella relazione terapeutica il terapeuta sceglie di lavorare con impegno e senza mai fermarsi sulle difese ed il mondo auto sabotante del paziente, egli collabora con la parte sana del paziente, facendovi appello tramite il lavoro di sostegno e validazione e, in tal modo, si crea l’alleanza di lavoro e aumenta la motivazione al cambiamento da parte del paziente.
P: andavo a letto con tutti quanti, solo perché mi sentivo…nel mio cervello di diciottenne mi sentivo apprezzata così e non capivo invece che per un uomo, per un ragazzo, una vale l’altra. Non lo sapevo. E sono andata avanti per anni così.
Ora la paziente inizia a vedersi con occhi diversi: il tono non è più dispregiativo (indicatore dell’uso della difesa di svalutazione), ma di compassione nei confronti della ragazzina che era a diciotto anni. Questo cambiamento di prospettiva così fondamentale che la paziente concede alla sua parte più fragile avviene grazie a un poderoso lavoro sulle difese, svolto nelle sedute precedenti. Come affermato da McCullough Vaillant (1997, cap.5)[19], infatti, non è così semplice che un paziente abbandoni le sue abituali modalità difensive: esse rappresentano una certezza, una sicurezza, un punto fermo laddove nella sua vita ha regnato il caos, la paura e l’incertezza. Dunque, per far sì che un paziente lasci la terra ferma, seppur arida, desolata e inospitale, rappresentata dalle sue difese, per avventurarsi per il mare aperto, sconosciuto e imprevedibile, rappresentato dall’adattamento a difese più mature e funzionali, è necessario che paziente e terapeuta affrontino diversi passaggi, prima. Questi sono ben illustrati nel libro di Osimo, Parole, emozioni e videotape (2008, pag. 101)[20]:
- “Mettere in luce le conseguenze negative e punitive delle difese di carattere (d.R. o cellar door) e dei comportamenti ad esse collegati e aiutare il paziente a sentire emotivamente gli effetti della sua auto-punizione;
- Creare la possibilità emotiva per ogni persona di rinunciare a ricorrere a tali modalità penalizzanti anche se esse rappresentano per il paziente un equivalente delle sue relazioni con figure di attaccamento primario. Comportamenti masochistici e autopunitivi, ad esempio, si mostrano tanto più resistenti al cambiamento quanto più equivalgono simbolicamente alla relazione con un genitore che è realmente stato violento e punitivo. Per permettere al paziente di evadere da tale circolo vizioso occorrerà contrastare le relazioni patologiche con altre esperienze relazionali più positive della sua vita, se ci sono o ci sono state, facendo leva anche sulla relazione con il terapeuta;
- Avere presente che una persona può vivere con terrore la prospettiva di rinunciare a delle modalità che gli rappresentano la sua identità personale. Quindi solo un terapeuta che riesca a comunicare al paziente di rendersi conto di questo fatto sarà sufficientemente empatico da permettere al paziente di affrontare tutto il dolore che un cambiamento di carattere comporta;
- La rinuncia a una difesa rappresenta sempre una perdita simbolica che il paziente deve essere aiutato a elaborare;
- Ogni difesa, anche la più penalizzante e paralizzante, comporta anche alcuni aspetti vantaggiosi, dei quali occorre tenere conto, così da poter aiutare il paziente a individuare delle strategie alternative per non perdere tali vantaggi.”
T: e perché secondo lei?
La terapeuta non perde occasione di riportare la paziente alla responsabilità nei confronti di sé stessa.
P: avevo bisogno di amore
La paziente si sintonizza con i bisogni autentici, primari che hanno dato origine alle sue difese e ai suoi comportamenti
T: annuendo caldamente aveva bisogno d’amore, S., si…laddove glie ne è mancato, dalla sua mamma…
Anche la terapeuta è in piena sintonia con i bisogni e le emozioni della paziente ed esegue un ulteriore intervento di validazione delle sue difese, assumendo, in questo modo, un atteggiamento diverso da quello che la figura di riferimento primaria ha avuto nei confronti di S. La paziente, dunque, sperimenta un altro momento di esperienza emotiva correttiva: dato che la risposta della terapeuta è diversa dalla risposta abituale della mamma di S., la paziente ha l’opportunità di far fronte a quelle situazioni emotive che in passato erano intollerabili e gestirle diversamente rispetto a prima (Alexander & French, 1946)[21]. In questo caso, infatti, la paziente abbandona definitivamente le difese e inizia a commuoversi sempre più profondamente e autenticamente.
T: e quindi se rivede quella ragazza di 18 anni, se ripensa a quella ragazza di 18 anni, ora, cosa prova nei suoi confronti?
Ora che la paziente ha abbassato le difese, la terapeuta esegue, una pressione sull’esperienza emotiva con lo scopo di sostenere e lasciare espandere l’intenso contenuto emergente.
P: tanta tristezza… mi preferisco adesso, di gran lunga
La paziente ora accede “cognitivamente” all’effettiva emozione sottostante e prova antipatia nei confronti della sua parte auto-sabotante e difensiva: finalmente la vede, la riconosce e se ne discosta. Uno degli scopi del terapeuta è quello di coadiuvare il processo di separazione del paziente dalle sue difese, iniziandole a vedere come qualcosa di “altro” da Sé.
T: lei adesso è una donna, è diversa e ha degli strumenti diversi rispetto a quella ragazza di 18 anni spaventata, bisognosa d’amore.
La terapeuta effettua un intervento di rafforzamento dell’alleanza terapeutica, schierandosi con la paziente contro la sua parte auto-sabotante e riportando la paziente al qui e ora: intervento ad alto dosaggio di chiarificazione delle difese auto-sabotanti, di cui ora S. non ha più bisogno perché può contare su nuovi strumenti più funzionali e maturi per poter far fronte alle criticità della vita.
T: Lei adesso può essere di sostegno e di conforto a quella ragazza. È triste quello che le è successo, molto triste.
La terapeuta approfondisce ulteriormente l’intervento precedente, continuando a fornire un elevato dosaggio di chiarificazione delle difese e un solido sostegno all’Io della paziente.
Il passaggio successivo è di elaborazione empatica, sfruttando una caratteristica cardine della psicoterapia dinamico-esperienziale accelerata (AEDP, Fosha & Slowiaczek, 1997)[22]: l’espressione esplicita dell’empatia (Alpert, 1992[23], 1996[24]; Foote, B. 1992[25]; Foote, J. 1992[26]; Fosha, 1992[27]; Osiason, 1995[28]; Sklar, 1994[29]). Questo tipo di strategia prevede un uso attivo delle reazioni empatiche del terapeuta, andando oltre, quindi, al riflettere i sentimenti del paziente solo per fargli sapere di essere ascoltato: il terapeuta trasmette al paziente la propria idea del significato che una certa situazione può aver rappresentato per il paziente. Questo è quello che la terapeuta fa, nel momento in cui dice a S. “è triste quello che le è successo, molto triste”; ma qualunque cosa il terapeuta esprima, deve essere autentica, altrimenti l’intervento rischia di cadere nel vuoto. Se il paziente, invece, percepisce il terapeuta autentico e caldo, come in questo caso, può accedere ad una grande tristezza per la consapevolezza di ciò che gli/le è stato negato in passato. Il fatto di AVERE empatia dalla terapeuta ora, fa cogliere a S. quanto NON HA AVUTO in passato, ma questa consapevolezza e il supporto della terapeuta le permette anche di poter piangere per tutto quello che non ha avuto (Fosha, 2016): “quando il paziente percepisce il terapeuta come empatico, i sentimenti passano reciprocamente dall’uno all’altro, in apparenza con facilità […] E’ un intervento efficace, dato che molti pazienti hanno raramente provato quello che è l’impatto di una persona che sta con loro emotivamente (Osiason, 1995)”.
T: se si immaginasse di poter confortare, di poter stare vicino a quella ragazza, cosa farebbe?
La terapeuta sollecita e coadiuva la formazione di un’immagine concreta di esperienza emotiva correttiva: è la paziente stessa a fare le veci della figura genitoriale che nella sua infanzia ha fallito nel fornirle una risposta emotiva e comportamentale adeguata e rassicurante: “Gli errori di commissione si hanno generalmente con quei caregiver più disturbati e più fragili. In questo scenario il bambino non solo non riceve aiuto per sostenere i sentimenti che temeva fossero insopportabili ma è anche umiliato, biasimato, rifiutato o punito, e gli si vieta di esperirli o esprimerli (o è deriso se lo fa)” (Fosha, 2016)[30]. Purtroppo questo è proprio il caso di S., che è stata derisa, umiliata e rifiutata dalla sua figura primaria di attaccamento, da sua madre, che invece di accoglierla e proteggerla, le riservava parole crudeli, violente e atteggiamenti per nulla protettivi. Questo ha fatto sì che le fragili fondamenta di una bambina che si costruisce un poco per volta attraverso le esperienze del mondo che le capitano, venissero profondamente minate. L’immagine di sé che S. si è creata è quella di un essere di poco valore, non desiderabile, profondamente fragile e insicuro.
Ma all’interno del setting terapeutico, la paziente può sperimentare una nuova modalità relazionale con la terapeuta, percependosi come individuo capace di prendersi cura di sé, rispettarsi e volersi bene. Attraverso questa nuova visione di sé (ristrutturazione del Sé), S. è anche in grado di prendersi cura della ragazza che è stata; la paziente comprende che la vecchia modalità di comportamento era un tentativo adattivo della bambina nei confronti delle circostanze che stava vivendo. Ora S. è in grado di vedere come questa modalità non le sia più utile, ma anzi, la ostacola nelle relazioni con gli altri (Alexander, F. & French, T. M., 1946)[31].
P: se non fossi io?
Ancora una volta la paziente tenta di sviare e di allontanarsi dall’accesso al materiale emotivo inconscio, ripiegando sull’autosvalutazione.
T: no, proprio lei! Nessun’altro…
La terapeuta richiama la paziente alle sue responsabilità verso sé stessa e alle sue capacità (Abbass, 2015)[32]. Pazienti con una forte tendenza alla passività, infatti, sono portati a rimandare la responsabilità e la direzione da seguire nel percorso terapeutico unicamente al terapeuta. In questo caso, dunque, è opportuno invitare il paziente a una collaborazione attiva, rimandandogli la necessità di un investimento di risorse e di impegno da parte di entrambi.
P: cosa farei?
La paziente persevera con un atteggiamento blandamente difensivo, rimanendo vaga e non rispondendo alla domanda della terapeuta.
T: lei, adesso, la persona che è ora, con gli strumenti che ha ora, come starebbe accanto a quella ragazza di 18 anni? come conforterebbe quella grande tristezza, quella grande paura, quel gran bisogno d’amore che aveva?
La terapeuta fa un intervento di precisazione, ricapitolazione e pressione, richiamando la paziente a essere altrettanto precisa nel momento in cui deve prendersi cura di sé. È di fondamentale importanza sfidare questa resistenza residua, poiché finché essa sarà presente non sarà possibile un autentico accesso all’inconscio e se il terapeuta non se ne occupasse e cercasse prematuramente dei contenuti ancora non completamente accessibile, allora il processo terapeutico si sposterebbe unicamente sul piano cognitivo e intellettualizzato (Davanloo, 1997)[33].
P: con l’amore
Finalmente la paziente abbandona le risposte difensive, lasciandosi guidare dalle emozioni del momento e dall’alleanza terapeutica.
T: come?
La terapeuta continua a sollecitare la paziente a fornire dettagli, in modo da fare prendere forma all’immagine creatasi nella mente di entrambe, in modo da alimentare l’emozione emergente.
P: con un abbraccio
T: mh! Annuendo sta vedendo quella scena? Sta vedendo di abbracciare S. di 18 anni? la paziente annuisce com’è questo abbraccio?
La paziente è presa da forti ondate di profonda tristezza, arriva un pianto di pancia. S. ristabilisce il contatto visivo con la terapeuta, che continua a guardarla annuendo.
Questo passaggio è definito da Beebe e Lachmann (1994)[34] momento affettivo intenso: momenti di questo tipo hanno un grande potere trasformativo e danno origine a dei cambiamenti profondi nel paziente, non tanto in base alla loro durata, ma alla loro intensità.
T: lasci andare, non trattenga S., è importante!
Momento di forte commozione anche per la terapeuta, che è totalmente concentrata sulla relazione con la paziente e in profonda risonanza emotiva con lei: anche nella terapeuta affiorano i correlati fisici legati all’emergere di emozioni potenti. Nello specifico, la terapeuta avverte una chiara sensazione del classico “nodo in gola”, collegato all’esperienza fisica di una profonda tristezza e del pianto che ne deriva.
Questo momento pare rispecchiare le parole di Siegel (1999)[35]: due persone durante uno scambio intenso e autentico, non solo rispecchiano e influenzano le proprie emozioni, vicendevolmente, ma anche le proprie sensazioni fisiche e il proprio funzionamento cerebrale.
La terapeuta facilita e sostiene l’emergere dell’emozione della tristezza che la paziente prova nei confronti di sé stessa. In questo passaggio si assiste al manifestarsi di uno degli stati affettivi di guarigione: il rimpianto del Sé (Fosha, 2016)[36]. In questo caso l’esperienza terapeutica attiva la consapevolezza del paziente di ciò che non ha avuto, quello che ha perso e quello che gli è mancato. Il rimpianto del Sé implica affrontare ed elaborare l’impatto della realtà dolorosa che ha determinato la sofferenza psichica del paziente, proprio come nel processo di elaborazione del lutto (Freud, 1917[37]; Lindemann, 1944[38]; Volkan, 1981[39]). Quello che il paziente esperisce in questi casi, infatti, è proprio un dolore luttuoso che ha per oggetto il Sé.
P: ne avevo proprio bisogno a 18 anni
La paziente ora riconosce i bisogni di quando aveva diciotto anni, vede quella ragazza e prova dispiacere per lei, per sé stessa.
T: eeh si…e ora lei se lo può dare!
La terapeuta continua a sostenere la parte sana della paziente, l’Io osservante e attento, il Sé ristrutturato e in grado di sostenere la sua parte più fragile.
P: …ero sola
La paziente continua a riconoscere le gravi mancanze che ha subito da parte delle figure genitoriali e si concede di vivere il forte dispiacere per sé e per le difese auto-sabotanti che ha dovuto mettere in atto.
La terapeuta si commuove ancora, velatamente, empatizzando con la paziente.
T: cosa prova nei confronti di quella ragazza?
In questo passaggio la terapeuta esegue un intervento di pressione sull’emozione: pressione significa invitare il paziente a fare qualcosa che alimenti il suo processo di guarigione. In altri interventi, invece, il terapeuta può eseguire un intervento di sfida alla difesa, come esposto anche precedentemente in questo stralcio di seduta: sfidare la difesa significa invitare il paziente ad abbandonare qualcosa che interferisce con il suo processo di guarigione (Abbass, 2015)[40]. Secondo quanto affermato da Davanloo (1999b)[41], esistono dei correlati neuronali precisi, a cui il terapeuta si appella nel momento in cui esegue un intervento di pressione –sistema limbico- o di sfida –regioni cerebrali inbitorie-.
P: del bene
In questo passaggio emerge un altro stato affettivo di guarigione: il processo di ricevere affermazione (Fosha, 2016)[42]. Grazie a tale processo il paziente è in grado di riconoscere, sentire ed elaborare le esperienze terapeutiche che hanno alleviato la sua sofferenza e hanno generato un crescente senso di benessere. Weiss (1952)[43] descrisse le lacrime che spesso accompagnano questi momenti come un “pianto a lieto fine”.
T: dove lo sente fisicamente questo bene?
Incoraggiamento all’esplorazione dei correlati corporei dell’emozione (Fosha, 2016)[44].
P: sul cuore massaggiandosi il petto.
T: e cosa sente? Che sensazione ha? Imitando il gesto della paziente, sul petto.
La terapeuta interviene attraverso il rispecchiamento dei concomitanti fisici dell’esperienza (Fosha, 2016)[45].
P: adesso sto rivedendo l’abbraccio…leggerezza
Questo è ciò che accade quando è stato fatto un buon lavoro di sfida alle difese e di regolazione dell’ansia: la mente è sgombra, libera e affiorano spontaneamente immagini e contenuti vividi. Questo passaggio è uno di quei rari e intensi momenti che consentono al paziente di fare un’esperienza emotiva autentica, piena e appagante: la paziente sta sperimentando uno stato affettivo di guarigione. Come descritto da Fosha (2016)[46], esistono delle tipiche manifestazioni fisiche e fisiologiche legati a tale condizione: generalmente la voce è tremante, occhi limpidi, luminosi e umidi di lacrime, lo sguardo rivolto verso l’alto. Quest’ultimo aspetto è spesso legato alla sensazione di qualcosa che si innalza, che emerge, il sentirsi sollevati: si ha una direzione verso l’alto dell’esperienza sensoriale.
T: lo riviva quell’abbraccio, S.: più spazio gli dà e più bene arriva per lei, più si nutre di questa cosa, di questo amore. Com’è lasciare spazio a questo amore?
In questo passaggio la terapeuta invita la paziente a conservare l’immagine appena affiorata e tutte le piacevoli sensazioni ad essa connesse, come qualcosa di molto prezioso, di nutritivo e di curativo.
P: è bello
La paziente ora è a contatto con le sue emozioni più pure, più autentiche e lascia emergere la versione del Sé al meglio: il Triangolo del vero Sé- vero altro- emozione trasformativa (Fosha, 2016)[47]. Quando viene smobilitato questo tipo di assetto, l’Altro è percepito come profondamente comprensivo e amorevole, si percepisce sé stessi come autentici e l’ambiente emotivo come sicuro. Questo tipo di momento è stato definiti da Lachmann e Beebe (1996)[48] “Momento affettivo intenso” e da Stern e colleghi (1998)[49] “momenti ora”: in questo stato l’individuo sente di stare bene e che l’Altro è autentico. Questo passaggio segna un punto di svolta della terapia, a seguito del quale emozioni prima inaccessibili, sono vissute e diventano nutritive.
Ora la paziente è in grado di essere buona con sé stessa e di provare sentimenti empatici e compassionevoli nei propri confronti. Questo passaggio è fondamentale, dato che sono proprio queste le basi del processo che consentiranno al paziente di terminare il trattamento in studio, pur continuando il suo percorso personale di guarigione e crescita: il paziente impara ad assolvere al ruolo di caretaker per sé stesso.
CONCLUSIONI
Ho incontrato S., una delle mie prime pazienti, la quale si è rivolta a me e, con la fiducia costruita un poco alla volta, si è lasciata guidare nel suo percorso personale, affidandosi e permettendosi di abbandonare le sue difese ed esplorare ciò che ci stava dietro e che in principio tanto la spaventava.
In risposta agli invalidanti attacchi di panico che hanno portato S. in studio, inizialmente abbiamo lavorato in modo massiccio sulla consapevolezza dell’ansia, sulla sua regolazione e sulla consapevolezza del corpo; altrettanto lavoro è stato destinato alle difese, puntualmente individuate, confrontate e chiarificate.
In parallelo abbiamo iniziato un lavoro di rinforzo dell’Io, grazie all’esperienza emotiva correttiva (L’abbraccio mai dato), attraversando la storia della paziente, dando spazio e legittimità alle emozioni che emergevano legate alla difficile infanzia della paziente, quali tristezza e rabbia.
Attraverso questo doloroso ma fondamentale lavoro di rinforzo dell’Io e grazie ai nuovi strumenti derivanti dall’esperienza emotiva correttiva, la paziente si è sentita gradualmente sempre più competente nel sostenere le proprie difficoltà e le proprie paure, sentendo un poco alla volta sempre meno la necessità di richiedere un intervento esterno per supportarla (telefonate al papà in preda all’ansia, frequenti accessi al pronto soccorso, numerosi e invasivi esami medici) e sentendosi, viceversa, sempre più in grado di prendersi cura di se stessa.
Grazie a questa fase di rafforzamento dell’Io, S. ha potuto intraprendere, poi, il cruciale processo di separazione-individuazione (Mahler, 2000)[50] dai sui genitori. Tale processo, infatti, non era stato completato in modo fisiologico dalla paziente, a causa dell’ambiente familiare disfunzionale e ostile. Per questa ragione la paziente si era identificata con l’ansia paralizzante del padre e viveva con il costante terrore di essere una cattiva mamma, come lo era stata sua madre.
Una volta rafforzato l’Io della paziente, questo si è reso anche più visibile a lei, permettendole di riconoscersi come essere distinto e separato dai suoi genitori. Gli stessi genitori che, anche nell’ultima seduta della sua terapia, S. riconosce come esseri umani, con le loro fragilità, difficoltà e con i loro punti di forza.
Questo lavoro testimonia l’utilità e la potenza che l’esperienza emotiva correttiva ricopre all’interno di un percorso di psicoterapia: la relazione di attaccamento traumatizzata viene riparata attraverso il ricrearsi di uno stile di attaccamento sano tra paziente e terapeuta, che rinforza la parte sana del paziente.
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[4] Ten Have-de Labije, J. & Neborsky R.J., Mastering intensive short-term dynamic psychotherapy: a roadmap to the unconscious, 2018.
[5] Ten Have-de Labije, J. & Neborsky R.J., op. cit.
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[10] Abbass, A. Reaching through resistance: Advanced psychotherapy technique, 2015.
[11] Fosha, D. Il potere trasformativo dell’emozione, 2016.
[12] Abbass, A. op. cit.
[13] Davanloo, H. op. cit.
[14] Ten Have-de Labije, op. cit.
[15] Ibidem
[16] Fosha, D op. cit.
[17] Wolf, E. S. On the developmental line of self-object relations, 1980.
[18] Fosha, D op. cit.
[19] McCullough Vaillant, L. Changing Character, 1997
[20] Osimo, F. op. cit.
[21] Alexander, F. & French, T. M. op. cit.
[22] Fosha, D., & Slowiaczek, M. L. Techniques for accelerating dynamic psychotherapy, 1997.
[23] Alpert, M. C. Accelerated empathic therapy: A new short-term dynamic psychotherapy, 1992.
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[28] Osiason, J. Accelerated empathic therapy; a model of short-term dynamic psychotherapy, 1995.
[29] Sklar, I. The corrective emotional experience in AET, 1994.
[30] Fosha, D op. cit.
[31] Alexander, F. & French, T. M. op. cit.
[32] Abbass, A. op. cit.
[33] Davanloo, H. op. cit.
[34] Beebe, B., & Lachmann, F. M. Representation and internalization in infancy: three principles of salience, 1994.
[35] Siegel, D. J. The developing mind: Toward a neurobiology of interpersonal experience, 1999.
[36] Fosha, D op. cit
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[40] Abbass A. op. cit.
[41] Davanloo, H. Intensive short‐term dynamic psychotherapy—central dynamic sequence: phase of challenge, 1999b.
[42] Fosha, D. op. cit.
[43] Weiss, J. Crying at the happy ending, 1952.
[44] Fosha, D. op. cit.
[45] Ibidem
[46] Ibidem
[47] Ibidem
[48] Lachmann, F. M., & Beebe, B. A. Three principles of salience in the organization of the patient-analyst interaction, 1996.
[49] Stern, D. N., Bruschweiler‐Stern, N., et al. The process of therapeutic change involving implicit knowledge: Some implications of developmental observations for adult psychotherapy, 1998.
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